L’infermiera Melinda “Mel” Monroe lascia Los Angeles e un passato burrascoso per ripartire da zero nel remoto villaggio di Virgin River, nel nord della California. Ma la nuova vita, di cui entra a far parte, tra gli altri, il barista Jack Sheridan, non è meno travagliata della precedente. Né il dolore di un tempo, che Mel spera di cancellare, accenna a demordere. Per riedificare la propria esistenza, dovrà prima riedificare sé stessa. Basato sull’omonima serie di romanzi di Robyn Carr, Virgin River è una delle numerose varianti del Sogno Americano, vale a dire la storia di una persona che emigra da un vecchio mondo per approdare ad uno nuovo, di rinnovata prosperità materiale e spirituale. Tale è la pregnanza tematica che la sua trama – per quanto semplice e prevalentemente sentimentale – si candida a supportare, tanto da suggerire una niente affatto ovvia revisione dell’American Dream. Purtroppo però, superata la prima stagione, il racconto smarrisce il suo tema, ora inventandosi sensazionali sventure, ora scivolando in frivole storielle, d’amore e non solo. In entrambi i casi con risultati grotteschi e, soprattutto, con scarsa attinenza al percorso di crescita della sua protagonista.
«La vita raramente ci dà quello che vogliamo»: è una delle più importanti lezioni, forse la più decisiva, che Mel Monroe deve apprendere dopo il suo arrivo a Virgin River. Affermazione gravida di implicazioni, specialmente se pronunciata in suolo americano, cioè là dove si professa la possibilità di abbandonare una vita per reinventarla daccapo. Difatti, non solo il piano di Mel è insidiato dal ciclico ritorno della sofferenza trascorsa, che le impone di non confondere la ripartenza con la rimozione (fingere che nulla sia mai avvenuto), ma si scontra anche con la progressiva consapevolezza che non sono sogni e progetti ad avere l’ultima parola.
Tant’è che si giunge a scomodare, in uno dei migliori dialoghi della prima stagione, la categoria di «serendipity» («serendipità»), così chiamata da Horace Walpole (1717-1797), con la quale Mel e Jack cercano di risolvere l’eterno dilemma tra libera scelta e destino, oltre che tra destino e caso. In ultima analisi, a governare l’esistenza non sarebbe nessuno dei tre, ma la serendipità, intesa come l’esperienza di colui che, nel cercare le Indie, s’imbatte nell’America. Così ha avuto inizio la storia americana, e così si svolge la storia di ognuno: una serie di imprevedibili scoperte, che spesso non collimano con ciò che si cercava, ma che offrono opportunità inimmaginate, perfino più pertinenti a ciò di cui si ha davvero bisogno. L’American Dream viene così rivisitato in American Serendipity.
Non solo: Mel viene da Los Angeles, città dei sogni per eccellenza, ma percepita anche come ultima destinazione possibile, priva di un’ulteriore frontiera da raggiungere. Il suo personaggio – e non è l’unico – incarna perciò un’America giunta al capolinea, obbligata non solo a ripiegare su uno spostamento geografico interno (dalla Città delle Stelle a Virgin River), ma anche a riformulare il senso stesso della rinascita a nuova vita: non un mero trasloco, ma un cambiamento di persona. E che la serie abbia la sottaciuta ambizione di rifondare l’America, di tornare alla sua origine, lo dimostra il suo stesso scenario: un «vergine» paesaggio montano attorno ad un villaggio fluviale, simile ad un avamposto di pionieri del West, con tanto di saloon (il bar di Jack).
Ma di tutto questo, nelle stagioni successive, resta poco: solo un periodico riaffiorare dei fantasmi del passato. Un continuo ribadire, senza progressione, quanto l’antico dolore non sia ancora trascorso. Nel mentre, le vicende presenti partono per la tangente: il tema slitta altrove, grosso modo verso la necessità che il villaggio impari a metter da parte gli screzi personali per sostenersi nel momento del bisogno. Bisogni scatenati da eventi che, anche quando non emergenziali o catastrofici di per sé, svelano quanto gli autori abbiano voluto accontentarsi di un generico e mediocre «far succedere qualcosa». Non importa cosa: basta che inneschi commozione o terrore a comando.
Quanto agli attriti che i personaggi sono chiamati a oltrepassare, talvolta si tratta di bisticci a base di gelosia e pettegolezzi, che mal si addicono a degli adulti: fossero anche deliberatamente comici (a volte lo sono), escogitati proprio per mettere in scena il passaggio dalla vanità della lite alla necessità della collaborazione, il risultato ha un che di maldestro.
Altre volte, invece, l’oggetto del contendere è ben più serio: figli avuti da altro partner, dispute sull’affido, matrimoni in sospeso tra separazione e divorzio, ricorso alla fecondazione assistita e accenni alla maternità surrogata. Ma, anche in questi casi, i protagonisti cedono a decisioni impulsive, allo sconforto momentaneo, a futili rancori e rivendicazioni, riuscendo a stravolgere le loro già ingarbugliate vite ancora di più. Ma grave o no che sia la materia, Virgin River ha la soluzione in tasca per ogni cosa: la gentilezza. Comprensione ed empatia, ci dice, sistemano tutto.
E tanta i suoi abitanti ne hanno da elargire, da essere pronti ad intrepidi atti di sacrificio: ma che ad essere così audaci siano le stesse persone altrove così confuse, ha un che di stonato. Più che poliedrici o volutamente contradditori, sembrano personaggi in mano all’arbitrio degli autori, autorizzati a tramutarli ora in anime smarrite, ora in ammirevoli eroi. Cioè ad usarli come fonte di facili attrazioni, lacrime o entusiasmo che siano.
C’era una volta una Virgin River semplice ma sincera. Poi vennero i giorni della sua svendita. Che peccato.
Marco Maderna
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