L’anziano e malato Logan Roy, proprietario della multinazionale Waystar Royco, è costretto a nominare un successore. Purtroppo per lui, nessuno dei contendenti – primi fra tutti i figli Kendall, Roman e Siobhan – sembra all’altezza dell’incarico. Né il misantropo e burbero Logan è così disposto a mollare l’osso: non c’è membro della sua famiglia o del suo staff che lui non consideri (con qualche ragione) una vipera o un pescecane, un demonio travestito da servitore. Dal canto loro, figli e collaboratori vivono come bambini spaventati, alla mercé ora del padre impulsivo e severo, ora del grande magnate.
Entrambe le parti si sentono manovrate, circuite, abbandonate nel deserto del disamore, dove ogni relazione è viziata dall’interesse, l’ipocrisia è normale prassi e il desiderio di essere liberi e veri, se mai affiora, non trova cittadinanza. Ne deriva un racconto che, nonostante la satira e l’arguto (e dolente) umorismo, sembra incamminato – solo la stagione finale potrà dircelo – verso la tragedia. Tant’è vero che i protagonisti stessi, nel loro stratificarsi di maschere e flagranti contraddizioni, sembrano i primi a non accorgersi dell’irrimandabile urgenza di solidarietà o di stima che dimora in loro, né a saperla decifrare.
Ciò significa che Succession, come molte altre serie e forse anche più, risveglia emozioni quanto mai labirintiche: solo una visione approfondita e paziente può districarle e comprenderle, onde evitare che la poca chiarezza di giudizio che gli stessi personaggi hanno su di sé, lasci lo spettatore confuso a sua volta.
Avendo come mondo narrativo le stanze del potere, e coincidendo queste con le pareti domestiche, Succession, come altre serie televisive, ha un chiaro debito con Shakespeare e le sue guerre dinastiche e fratricide. Non a caso, Logan Roy è stato paragonato, tra gli altri, a re Lear. Ma non manca chi ritiene che, al contrario, Succession non sia shakespeariano abbastanza.
Il fatto è che, a rigore, si tratta non di tragedia ma di tragicommedia: il disgusto di Logan per l’opportunismo che lo circonda, il suo risentimento verso il mondo intero, le esplosioni di rabbia e il disinvolto mandare al diavolo chiunque, hanno un che di caricaturale. Come lo hanno la musica hip hop o la palestra di Kendall (il cui conflitto col padre è il vero architrave dell’intero racconto): con queste ed altre trovate, Kendall vorrebbe infondersi una determinazione e un vigore che non sa più dove cercare. Suo fratello Roman, che adora recitare la parte del perfido e noncurante dissacratore, ha il fisico gracile e gli occhi e la voce di un cartone animato. La sorella Siobhan ha nervi a fior di pelle e condivide con tutti un certo talento per gli impiastri. Per non parlare di Connor, dei quattro fratelli il meno interessato alla scalata alla Waystar Royco: in compenso, perso nel suo mondo di ingenua vanagloria, sogna la presidenza degli Stati Uniti.
Cos’è dunque per davvero Succession? Come dobbiamo guardare a questi adulti, in fondo, rimasti bambini? Dobbiamo oltrepassarne la goffaggine per constatarne la miseria o, al contrario, lasciarci strappare una risata che la sdrammatizzi? Per quanto la prima ipotesi sia la più probabile – se Kendall è così fragile, è perché suo padre lo avvilisce –, Succession ha una controversa doppia natura: da un lato, è una lotta tra squali. Dall’altra, si tratta di squali in fondo velleitari. La loro storia è un continuo tergiversare tra imminenti rese dei conti e ritirate improvvise; un perpetuo tira-e-molla di alleanze sciolte e subito ricostruite, un eterno ritorno al punto zero. Foss’anche intenzionale – e non il sintomo di una sceneggiatura senza bussola o a corto di idee –, il risultato di questa ritrosia a prendere fino in fondo una posizione, di questa codardia generalizzata, è uno spettacolo per metà appassionante e per metà grottesco. Si tratta di fine psicologia o di un buco nell’acqua?
Dai perpetui giri di valzer deriva un avvicendarsi di amore e odio, di cui gli stessi protagonisti, così avvezzi alla doppiezza, non vengono più a capo. Generalmente, quando un figlio mostra di voler bene al padre (o al fratello), mente; ma neanche quando si scagliano reciproche maledizioni i Roy sembrano troppo sinceri con sé stessi. Perfino gli amanti si usano a vicenda, e con disinvoltura: abituati alla premessa che vivere significhi procurarsi una posizione, i Roy sembrano i primi a non saper distinguere, oltre che l’amore dall’odio (o il bene dal male), l’onestà dalla maschera, la verità dalla finzione. Fino a non notare o non comprendere loro stessi quella nostalgia di un amore senza equivoci che, nonostante tutto, vive in loro. Fa eccezione solo la protettiva Marcia, moglie di Logan, che appare l’unico esempio di benevolenza limpida e incondizionata (una vera rarità, nel mondo di Succession).
È pur vero che Kendall è meno altalenante degli altri. E che nessuno più di lui, che della lontananza e disistima del padre ha pagato il prezzo più alto, è abilitato ad accorgersi che, senza essere (davvero) amati, non c’è crescita né vita adulta: che, a qualunque età, senza amore ci si ammala. Ma anche Kendall non conosce altra soluzione alle umiliazioni del padre che contendergli il potere.
Chi ha familiarità con le serie di HBO non si meraviglierà di quanto Succession sia saturo di meschinità e cinismi: è tipico di certa televisione americana privare i suoi personaggi dei più comuni sentimenti e qualità morali, di farne dei cosiddetti “anti-eroi”. Occorre tener presente che tale programmatica dis-umanizzazione, per quanto discutibile, ha lo scopo di verificare se, nel rimuovere ogni traccia di bene, nello scenario potenzialmente distopico che ne deriva, c’è qualche germe di umanità nuova in grado di resistere; se, al fondo dell’abisso, c’è un tesoro che brilla. É questa gemma preziosa che storie come Succession si fanno carico di custodire: in questo caso, una segreta, ma insopprimibile, ricerca d’amore che non può più attendere.
Marco Maderna
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