1943. Il Maggiore Gale «Buck» Cleven e il Maggiore John «Bucky» Egan, ufficiali dell’Air Force statunitense, partono per l’Inghilterra: l’unità aerea di cui sono entrambi ufficiali (il 100° Gruppo Bombardieri) svolge regolari incursioni nei cieli della Germania e dei territori occupati, ogni volta per colpire un diverso obiettivo. Al rientro da ciascun raid, ha inizio il rituale conteggio dei velivoli di ritorno: sempre di meno, complici alcune spedizioni fallimentari, per non dire disastrose. Così disastrose da non poter aggirare le sottaciute ma pensierose domande della complice e fraterna coppia Buck/Bucky, nonché dei loro commilitoni: ne vale la pena? La vale per il mondo (per le altrui vite salvate) o anche per noi? Di noi importa a qualcuno? Che ne sarà del sangue che ci lega, il giorno in cui uno di noi due non farà ritorno?Basata sull’omonimo libro di Donald L. Miller, Masters of the Air nasconde dietro le quinte Steven Spielberg e Tom Hanks, già produttori delle miniserie Band of Brothers (2001) e The Pacific (2010), anch’esse dedicate a storie di soldati americani della Seconda Guerra Mondiale. E come già (in parte) le sue precorritrici, oltre ad essere un omaggio ai militi ignoti alla Grande Storia, racconta la singolare fratellanza che è solita nascere o sigillarsi grazie alla comune esperienza al fronte.
«The Bloody 100th»: il «Maledetto Centesimo». Così era noto il reparto aereo di Buck e Bucky, non ultimo a causa dell’inarrestabile numero di caduti. E che ad essere esposte all’altissimo rischio di missioni potenzialmente suicide siano proprio quelle intense relazioni che fin da subito la miniserie si sforza di far gustare allo spettatore, dice del sotterraneo struggimento che attraversa i nove episodi. Il grado di intimità raggiunto dai commilitoni è ben testimoniato: c’è chi impara a riconoscere il profumo del dopobarba altrui e chi è così attento al proprio camerata da accorgersi che la parte delle lettere della fidanzata su cui questi si sofferma più a lungo è la firma di lei.
Difatti, Masters of the Air è una sapiente combinazione, non nuova ma efficace, tra film d’azione e love story, quest’ultima nella specifica variante dell’amore fraterno, non di coppia. Amore che si esprime soprattutto in un patto di fedeltà reciproca, che rende possibili sacrifici altrimenti inimmaginabili, come quello di chi rinuncia volontariamente al proprio congedo per restare sul campo coi compagni. Pur discretamente – una maggior esplicitezza le avrebbe forse giovato – la storia suggerisce quanto la guerra (per la quale, beninteso, la serie non ha alcuna ammirazione) porti in sé stessa un possibile antidoto al proprio veleno: se, infatti, con una mano fa scempio degli esseri umani, con l’altra, a sorpresa, li raduna.
E la potenza di questa seconda esperienza è tale, per alcuni tra i soldati, da rendere lo scenario bellico un terreno favorevole perfino a una personale maturazione, a un ritorno a casa diversi da come si è partiti: ne sa qualcosa il Tenente Harry Crosby, che ai propri fratelli in armi deve nientemeno che la scoperta di sé stesso. Infatti, ad attirare l’attenzione di Masters of the Air, come già altrove nel trittico cui appartiene, è proprio l’inatteso sbocciare di fiori umani là dove tutto concorre alla disumanizzazione, che sia per trauma, per assuefazione alla brutalità o altro.
Significative, in tal senso, le inquadrature di cieli attraversati dal vorticare di aerei in fiamme, da scie di missili e bombe, da uomini che precipitano nel vuoto; o anche gli orizzonti notturni illuminati dai bagliori delle bombe. Un paesaggio celeste trasformato in un inferno, di fronte al quale non è strano che i piloti del 100° restino senza parole, sospinti verso il mutismo attonito di chi, non potendo esprimere quanto ha visto, rischia di restarne soverchiato. Eppure, anche all’inferno si può essere uomini: non è destino che lo sgomento abbia l’ultima parola, che si debba sottostare alla sciagura, dal momento che perfino questa può allevare persone.
Non solo, ma il legame maturato tra gli aviatori riverbera i suoi effetti ben oltre il conflitto: oltre a dimostrarsi una pietra angolare per la sorte dell’impresa bellica, coessenziale alla maestria dei piloti e alla strategia degli ufficiali, è anche un punto di non ritorno per quanti rientrano a casa. Tanto da ridurre il timore e il rischio che, dopo essersi forzati a uccidere per mesi e mesi, dopo aver a lungo remato contro ogni istinto di vita o sentimento di pietà, non si riesca più a far parte del consesso umano.
Se davvero è così, forse il «Maledetto Centesimo» non meritava davvero il suo nome. Tra le righe, Masters of the Air sembra insinuare proprio questo: era martoriato, ma non dannato. Forse a colpirlo è stata una benedizione.
Marco Maderna