The Last Dance


Qualità generale:
Qualità educativa:


IDEATORE: Michael Tollin
INTERPRETI: /
SCENEGGIATURA: /
PRODUZIONE: NBA Entertainment, Mandalay Sports Media, Jump23, ESPN, Netflix
ANNO DI USCITA: 2020
STAGIONI: 1 (10x50')
PRIMA MESSA IN ONDA: Netflix
DOVE SI PUÒ VEDERE ORA: Netflix
GENERE: documentario sportivo

Età cui è rivolta la serie (secondo noi): >14
Presenza di scene sensibili: casi di turpiloquio, qualche scena a contenuto sensuale nella puntata su Dennis Rodman

CONSIGLIATO DA ORIENTASERIE

L’epopea dei Chicago Bulls e della loro star Michael Jordan raccontata a partire dall’ultima stagione insieme del quintetto, quella del titolo NBA 1997-98, il sesto campionato vinto in otto anni. Un’impresa senza precedenti, a cui la squadra è trascinata dal suo fuoriclasse Jordan, ben più che un cestista impareggiabile e uno degli sportivi più straordinari di sempre, un’icona globale che ha segnato un’epoca.
Nell’anno che li consegnerà alla leggenda, una troupe ottiene il permesso di riprendere i Bulls lontano dai riflettori, dentro e fuori lo spogliatoio, durante allenamenti e trasferte. Materiale inedito che il documentario mette a buon frutto per far rivivere dal punto di vista dei protagonisti, delle emozioni pre e post-partita, l’ebbrezza delle loro gesta sportive – abbondantemente celebrate con immagini dei match e stralci di telecronaca originale.
Articolandosi su tre diversi piani temporali – la stagione d’addio; gli inizi di carriera dei giocatori; l’ascesa dei Bulls a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, quando sono una compagine meno che mediocre – il racconto fa perno sulla figura di Jordan: la serie è la sua storia e la storia di quelli che hanno avuto il privilegio di stare al fianco del più grande. Nonostante alcuni passaggi sulle contraddizioni del campione – la refrattarietà ad assumere posizioni scomode, per tutelare la sua immagine e quella del suo ricchissimo sponsor – il messaggio generale che si trae dalla visione è dunque quello incarnato e apertamente professato dal personaggio “MJ”: il valore della competizione, il non arrendersi mai prima di aver dimostrato di essere il migliore, il dare il massimo per la vittoria.

 

 

Approfondimento

La cavalcata dei Bulls è fatta di personaggi e conflitti interessanti: è di per sé una bella storia distribuita lungo un quindicennio. La scrittura della docu-serie, alternando materiale d’epoca e interviste recenti, valorizza la traccia narrativa interna agli eventi. Ne enfatizza le svolte e, concentrando i tempi e allacciando periodi lontani, orchestra la sua retrospettiva scegliendo un filo conduttore: lo scontro, ora aperto, ora latente, tra il team dei giocatori-eroi, votati alla gloria, e la dirigenza della squadra, sensibile, invece, al freddo calcolo, alle esigenze di gestione e programmazione. Il cattivo della storia è dunque il general manager Jerry Krause, che rivendica meriti e prende la decisione antipatica su cui il racconto ha inizio: smantellare a fine campionato un team invecchiato sì, ma ancora vincente. Sua antitesi, il personaggio migliore della serie, l’allenatore Phil Jackson. Con psicologia e umanità ha saputo tenere insieme il gruppo, e convertire Jordan dall’individualismo al gioco di squadra. Il titolo del documentario è una citazione proprio di Jackson che, amando affrontare ogni stagione alla luce di un tema, scrisse “The last dance” sul manuale tattico distribuito a ciascuno dei suoi uomini all’inizio dell’anno che li avrebbe portati a sciogliersi. Questo impianto narrativo sostiene una rassegna di personaggi efficacemente tratteggiati nella loro forza archetipica: Jordan il predestinato, Larry Bird e Magic Johnson i precursori, Scottie Pippen il fido scudiero, Dennis Rodman il cane sciolto, Kobe Bryant l’erede…

Uno spaccato della storia degli Stati Uniti

Il maggiore pregio di scrittura è l’abilità di legare fatti diversi per giustificare e rendere fluide, facendo leva su analogie o contrasti, le transizioni temporali. Dall’oggi in cui Pippen usa un infortunio per non giocare e fare pressione sulla società, allo ieri in cui Jordan forza la società a lasciarlo giocare, accorciando la convalescenza da una frattura; dall’oggi dell’ultima volta al Madison Square Garden, indossando le scarpe degli esordi, allo ieri del primo contratto con lo sponsor e al Dream Team olimpico come, tra le altre cose, mega operazione di marketing.
La vicenda di Jordan è uno spaccato degli Stati Uniti. Dentro e fuori il campo da basket, la serie è lo squarcio di un modello-Paese e di una società che hanno improntato di sé il nostro oggi. Ci sono spunti sul caleidoscopio etnico-culturale (coach Jackson, figlio di pastori pentecostali del Montana, ex hippy, che sottopone la squadra a sedute di autoconsapevolezza ispirate al buddismo e alla filosofia dei nativi americani). Si tocca con mano la forza di un mercato di dimensioni continentali, trampolino per conquistare i consumi del resto del mondo (la Nike si può permettere di pagare a Michael, giovanissima matricola, 250 mila dollari, aspettandosi di guadagnare in quattro anni 3 milioni dalla vendita delle sue scarpe. Fatturerà 126 milioni nel solo primo anno). Si vede quanto economia e entertainment sono connessi all’interno di una macchina spettacolare ciclopica (la Warner che, mentre gira un film con e su MJ, gli allestisce un autentico palazzetto perché il campione possa invitare a Hollywood amici e colleghi, altre star, per allenarsi). Questa è l’America, vien da dire. Questo siamo anche noi, visto che uomini-multinazionale come Cristiano Ronaldo o Messi sono stati creati seguendo il caso scuola Jordan.

Michael Jordan, il predestinato

Jordan che non accetta di essere secondo a nessuno, che tratta male i compagni per stimolarli, che supera il lutto per la morte del padre, si ritira e ritorna più ambizioso, che non sostiene un candidato di colore contro l’avversario segregazionista. Per quanto leader di squadra e prodigio come pochissimi altri, rispetto ad altri del suo livello (si pensi a Maradona), meno umano e più marziano. Un po’ sprezzante. Ma quando lo si vede fare più di 60 punti a partita e il suo avversario Larry Bird, un altro asso, commenta “quello era Dio travestito da Michael Jordan”, non si può non ammirarlo.

Paolo Braga

Temi di discussione

• Privilegi, fatiche e ruolo della celebrità nella società dei media;
• Il valore del primato, che motiva, ma può indurire;
• Il gioco di squadra.